Il recentissimo caso della donna sotto curatela che non riesce a fare sentire la propria voce a cospetto delle ARP fa emergere tre diversi aspetti.
Il primo è persino paralizzante: lo Stato e le sue emanazioni (in questo caso le ARP) non devono umiliare. Le istituzioni nascono per servire e proteggere, anche quando l’applicazione di queste due missioni porta al lato opposto delle stesse. Ad esempio le forze dell’ordine, per servire e proteggere, possono anche essere chiamate ad arrestare qualcuno. L’arresto è la privazione della libertà e non della dignità.
Nel caso specifico la signora, in un momento delicato della propria vita, viene lasciata in balìa di se stessa da quelle istituzioni a cui si è rivolta per chiedere un aiuto che le è stato dato, salvo poi non avere né il tatto né la volontà auspicabili per fare in modo che trovasse la tranquillità di cui ha diritto.
La seconda riflessione è un déjà-vu: nonostante ci siano leggi (Codice Civile) a disciplinare l’intervento delle ARP, queste fanno spallucce e scelgono soluzioni lesive della personalità, in barba a quelle stesse norme che sono chiamate a fare rispettare. Si sprecano gli appelli fatti al ministro Norman Gobbi dal quale abbiamo ricevuto solo silenzi.
La terza riflessione è per lo più una chiamata a raccolta: le ARP possono essere paragonate a una disfunzione enorme che può essere curata solo con la somministrazione di molti farmaci attraverso un lungo e macchinoso periodo di degenza. In alternativa c’è una specie di “super antibiotico”: responsabilità civile di chi vi lavora. Sbagli? Paghi (di tasca tua, non con i soldi dei contribuenti). Sbagli laddove sarebbe stato facilmente possibile non commettere errori? A casa.
L’Esecutivo cantonale sta piano piano entrando nelle logiche dell’industria privata: risparmi, tagli, riorganizzazioni per l’efficienza della produttività. Licenziare chi si brucia a suon di errori sembra essere l’unico deterrente per frenare lo strapotere delle ARP, fuggite di mano al controllo della giustizia e della politica.